La Grande Guerra

di Mario Camaiani

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Strage sul ponte

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Sul fronte italiano, nei primi due anni della “grande guerra” non c'erano state grandi offensive da parte dei contendenti, ma le attività militari si svolgevano con incessanti e massicci cannoneggiamenti che impegnavano le tante e tante artiglierie delle opposte fazioni, con puntate di piccole e grandi pattuglie, con aspre lotte per la conquista o per il mantenimento di posizioni strategiche sulle alture, il che non erano cose da poco poiché il numero dei morti e dei feriti con il passare del tempo aumentava considerevolmente.

Fra i nostri soldati impegnati in prima linea, pur con spirito patriottico, talvolta serpeggiava il tarlo dello sconforto, ripensando alla vita da civili con le proprie famiglie, con i parenti, con gli amici di ogni genere; programmi di costruirsi un avvenire di lavoro, di formarsi una famiglia; e c'era pure chi già aveva moglie e figli, e tutti pensavano “chissà quanto ancora durerà questa guerra”, mentre ogni giorno vedevano morire o ferire dei loro commilitoni. Il momento più toccante era quello quando veniva distribuita la posta: ognuno apriva la propria leggendola con commozione, quasi immedesimandosi come 'vivere' direttamente le notizie che ricevevano. E si scambiavano ciò che i loro cari a loro descrivevano, diventando partecipi come di una grande famiglia, passandosi anche le foto che ricevevano: “Guarda, questi sono i miei genitori...questa è la mia fidanzata...”. Inoltre le truppe, che vivevano in disagevole trincee e anfratti, nutrendosi quasi sempre di cibi conservati, in condizioni non certamente igieniche, spesso venivano colpite da epidemie, di influenza, di dissenteria e di altri mali.

Mio suocero, classe 1888, militava nella fanteria (la regina delle battaglie, come veniva definita), e ben volentieri spesso di questo mi parlava, con descrizioni minuziose dei fatti, piccoli, grandi; ma soprattutto risaltandone l'aspetto umano.

Ecco però che i suoi racconti prendono una piega estremamente drammatica: siamo nell'ottobre del 1917 e gli austriaci e i loro alleati tedeschi e ungheresi scatenano una violenta offensiva contro il nostro schieramento che, non reggendo l'urto delle ingenti forze avversarie, nonostante fiera resistenza inizia a ripiegare. Ma la ritirata, dietro l'incalzare del nemico, non si svolge con ordine, come dovuto, bensì in maniera caotica: non sempre gli ordini dati dai comandi giungono alle truppe, fra le quali c'è chi approfittando della confusione non compie appieno il proprio dovere di combattere resistendo strenuamente.

Infine i nostri soldati giungono ad un ponte su di un fiume (che nel frattempo era stato minato dai nostri guastatori), accalcandosi su di esso in modo disordinato, mentre le avanguardie austriache giungevano pure loro al ponte, inseguendo gli italiani e mescolandosi con essi: era una situazione incontrollabile. Intanto altre truppe italiane, fra cui c'era mio suocero, stavano prendendo posizione ad una certa distanza al di qua del ponte, su delle colline che dominavano quel territorio, freneticamente scavando trincee e piazzando cannoni e mitraglie; ma ad un tratto il ponte fu fatto saltare, col carico umano che portava: un lampo accecante, una deflagrazione assordante e lunga come un tuono, ed infine una densa nube di fumo nero che copriva tutta la zona.

Poi, la triste distesa dei morti, sparsi tutt'intorno, ridotti a brandelli, mentre i tanti e tanti feriti gridavano aiuto. Una scena apocalittica che, nel ricordarla, mio suocero si commuoveva ogni volta.

La crudele logica della guerra: onde cercare di arrestare l'avanzata del nemico, era necessaria questa ecatombe di nostri soldati, unitamente a quella di soldati avversari.

Foto dall'Archivio Rigali (per gentile concessione dell'associazione Perché la tradizione ritorni – La Befana)



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